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Tecnica del colpo di penna

di Gianrico Carofiglio

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Domenica 21 Marzo 2010

La domanda non è: come mai un giorno un pubblico ministero abbia deciso di fare lo scrittore. La domanda è piuttosto: come mai un ragazzino che da grande voleva fare lo scrittore si sia trovato invece a fare il magistrato e, per molti anni, fino a un'età ampiamente adulta, non abbia scritto un solo rigo.
La risposta – o almeno una delle risposte – è: paura. Paura di provarci davvero e scoprire di non essere capace. Per via di quella paura ho cercato – e naturalmente trovato – ogni sorta di espedienti e diversivi per rinviare il momento della verità. E in un certo senso anche fare il magistrato – un lavoro che poi mi è piaciuto e che ho amato tantissimo – è stato una specie di gigantesco diversivo.
Poi, dai diversivi sono passato a caute, inconsapevoli manovre di avvicinamento. Per esempio scrivendo saggi sulle tecniche del l'interrogatorio, veri e propri manuali per addetti ai lavori. In realtà, in quel maneggio solo apparentemente tecnico di storie processuali, dietro il paravento del manuale, c'era già, ben nascosta, tutta la mia voglia di raccontare. Ma questo l'ho capito davvero solo molto più tardi.
C'è un momento che probabilmente segnò una svolta decisiva: dopo due libri, editi con Giuffrè, lo stesso editore mi aveva chiesto di scrivere un manuale pratico che illustrasse l'applicazione di moduli psicologici e retorici all'indagine e al processo penale. Dopo aver prodotto faticosamente una sessantina di pagine mi resi conto che non avevo davvero voglia di scrivere quel libro. Mi chiesi: «È davvero questo che vuoi fare?». Mi risposi che in realtà avevo voglia di fare altro e forse si stava avvicinando il momento in cui non avrei potuto ulteriormente rinviare. Ricordo con precisione di aver percepito che stavo per passare dalla fase della vita in cui si dice «un giorno farò lo scrittore» alla fase in cui si dice: «Avrei voluto fare lo scrittore». Come tutte le percezioni che hanno a che fare con il trascorrere irrimediabile del tempo, non fu una sensazione piacevole.
Sei mesi dopo cominciai a scrivere quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo. Intendiamoci. Ci avevo provato tante volte, prima. Ogni due, tre anni mi veniva un'idea per una storia, costruivo uno schema, prendevo appunti, leggevo manuali di scrittura creativa per darmi coraggio. Poi buttavo giù tre o quattro pagine, mi accorgevo che non erano buone – non sono mai buone, le prime pagine, ma allora non conoscevo il meccanismo – pensavo che il momento non era arrivato e smettevo.
Poi accadde una cosa che per me è tuttora inspiegabile. Il 5 o il 6 settembre del 2000 cominciai a scrivere, continuai a farlo per nove mesi, tutti i giorni, e il 5 o il 6 maggio dell'anno dopo il romanzo era finito.
Quel romanzo – che si sarebbe intitolato Testimone inconsapevole – è stato scritto con una determinazione e, direi, una sorta di misteriosa sicurezza che non ho mai più ritrovato scrivendo gli altri libri. Mi chiudevo in mansarda tutte le sere, di ritorno dall'ufficio e dicevo: «Vado a lavorare». Che, per un non-scrittore quale io ero, è un'affermazione quantomeno bizzarra.
Quel libro è stato scritto con tecnica cinematografica, e anche questo è un dato interessante, credo. Allude a una consapevolezza tecnica del tutto assurda per uno che non aveva mai scritto non dico un romanzo, ma nemmeno un racconto. Quando parlo di tecnica cinematografica intendo dire che scrivevo parti del romanzo come se girassi scene di un film, senza quasi nessuna relazione con la sequenza finale della storia. Alla fine, come si fa per i film, ho effettuato il montaggio e il romanzo ha preso la sua forma finale, come per una sorta di magia. È un metodo che continuo a utilizzare, ma non mi è mai più accaduto di praticarlo con la stessa lucida consapevolezza di quella prima volta.
***
Una storia, sia essa destinata a diventare un romanzo o un racconto, comincia, per me, contemporaneamente alla visione del suo finale e alla nascita del suo protagonista. Anzi direi: almeno dei suoi due protagonisti principali.
Questa fase precede di molto l'inizio della scrittura vera e propria. Per settimane o anche mesi cerco di capire chi sono questi personaggi e perché devono muoversi verso quel finale. Di regola non ci riesco.
In realtà l'unico modo per cominciare a capire chi siano questi personaggi e per quale ragione questa storia chiede di essere raccontata, è cominciare a scrivere.
Thomas Mann diceva che lo scrittore è una persona per la quale scrivere è più difficile che per le altre. Credo sia vero.
Comincio a scrivere sul serio solo quando – oppresso dal senso di colpa – percepisco il pauroso avvicinarsi della data di scadenza per la consegna. In questo senso, la tendenza patologica alla procrastinazione che in più casi ho attribuito al personaggio di Guido Guerrieri è un connotato del tutto autobiografico. Quando alla fine comincio a scrivere, attraverso una prima fase frenetica e alluvionale. Lavoro senza regole, mi interrompo in continuazione, butto giù frasi che spesso non stanno in piedi, aggiungo appunti tra le righe, con caratteri diversi. Insomma, un manicomio. Quando ho generato questo ammasso di parole, del quale solo vagamente si intuisce un disegno, so che lì dentro è nascosta la mia storia e che la vera scrittura sta per cominciare.
  CONTINUA ...»

Domenica 21 Marzo 2010
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